Interview with Davide Arneodo – Marlene Kuntz

Continua la nostra ricerca di artisti nel mondo dell’elettronica con un passato ‘non convenzionale’ e questa volta conosciamo Davide Arneodo, violinista, polistrumentista e compositore, ideatore del progetto VOV e uno […]

Continua la nostra ricerca di artisti nel mondo dell’elettronica con un passato ‘non convenzionale’ e questa volta conosciamo Davide Arneodo, violinista, polistrumentista e compositore, ideatore del progetto VOV e uno dei membri dei Marlene Kuntz.

Davide Arneodo

Incontriamo Davide al Teatro Elfo Puccini, a margine de Lo show dei tuoi sogni, un racconto per voce, immaginazione e musica, per la regia di Fabrizio Arcuri, con Tiziano Scarpa e il contributo musicale di Davide al fianco di Luca Bergia. È un’occasione particolare per parlarci. Davide, un diploma di violino sulle spalle e studi accademici di musica elettronica, suona con i Marlene Kuntz da diversi anni e al momento si sta concentrando su alcuni progetti personali. Questo spettacolo, che racconta la storia di un uomo, nel tentativo di mettere ordine nella propria vita e allo stesso tempo di lasciare una traccia della sua esistenza, ci fornisce lo spunto per discutere di intrecci tra musica e teatro, dei Marlene, di musica e impegno sociale e di come sta cambiando l’elettronica sperimentale.

Ciao Davide, partiamo proprio da quello che abbiamo visto stasera. La vicenda del signor Giovanni che, volendo lasciare qualcosa di sé a questo mondo incontra Gaudenzio, che a tutti gli effetti entra e si appropria della vita di Giovanni, come se uccidesse una parte di se stesso. La cosa che colpisce è notare come anche voi musicisti, alla fine risultate essere un alter ego di quello che è il racconto di Tiziano. Per questo avete ideato una struttura musicale astratta e un po’ onirica. Non per niente il sogno è uno degli elementi portanti della vicenda. Come avete immaginato e costruito la vostra produzione sonora?

È stato particolare, perché Luca ed io avevamo a quel tempo finito il tour con i Marlene e abbiamo pensato di fare qualcosa insieme nell’anno off, prima della nuova partenza. Cristiano, per l’uscita di Uno, settimo album dei Marlene, aveva chiesto a diversi autori, tra cui anche Paolo Conte e Tiziano Scarpa, appunto, di scrivere una frase per ogni pezzo del disco. Tiziano è venuto personalmente alla prima del tour al Teatro Toselli di Cuneo, per la presentazione dell’album, e allora io e Luca abbiamo pensato “perché non facciamo qualcosa insieme?”. Tiziano si era detto interessato all’idea. Aveva iniziato quindi a scrivere delle bozze di pensieri e noi delle bozze musicali, lavorando separatamente. Poi è venuto nel nostro ‘bunker’, all’inizio lo ha un po’ destabilizzato, immagina una sala prove senza finestre, acustica insonorizzata, volumi devastanti, a cui non era abituato. Però poi lo ha ispirato e da quelle bozze ha tirato le fila di un racconto e noi, a nostra volta, abbiamo iniziato a scegliere quelle che più si potevano adattare ad ogni pezzo. Quindi diciamo che non abbiamo musicato un racconto che lui aveva scritto, ma che è proprio nato tutto insieme.

Interessante, pensavo invece che aveste scritto la musica su un testo esistente. In realtà non si capiva in alcuni momenti se stessimo assistendo ad un concerto o ad una performance narrativa, in quanto funzionava moltissimo questa interazione tra voce recitante e musicisti, due entità che si fondevano continuamente, come nella storia in effetti.

Sì, infatti il bello di questo spettacolo è che non è un reading, non è uno spettacolo teatrale, ma funziona di per sé. Fabrizio Arcuri ci ha aiutato tantissimo con la regia, perchè all’inizio era più simile a un semplice reading. Noi non facevamo nient’altro che suonare con un aspetto scenico da concerto, eravamo concentrati a fare la nostra parte e lui immobile a raccontare.
La prima performance che abbiamo fatto è stata al Festival della Letteratura di Roma, di cui Fabrizio era il direttore artistico, l’ha visto, gli è piaciuto e ha deciso di farci la regia. Da quel momento è diventato un prodotto teatrale, abbiamo fatto un tour e una pubblicazione per Einaudi. In particolare quell’interazione di cui parli c’era già musicalmente, però è stato Fabrizio che le ha dato una struttura. Per me è ancora divertente vedere come all’inizio il pubblico rimanga scosso dall’invasione di campo di Tiziano [che viene verso la prima fila e abbozza un sentito rimorso per aver rotto il proiettore che dovrebbe trasmettere sullo sfondo delle immagini, obbligando di fatto il pubblico a costruirsi delle immagini, dei riferimenti visivi e concettuali] costruita apposta. Ovvio che il più sveglio lo capisce..
Poi pian piano cresce, noi da semplici musicisti entriamo nella storia e diventiamo non proprio attori, ma interagiamo nella struttura del racconto in maniera tridimensionale.

Ultimamente viene scritta molta musica elettronica per il teatro, come il tuo collega Apparat con il suo recente Krieg und Frieden, in sostanza musica concepita per teatro. Avverti che stia succedendo qualcosa per quanto riguarda gli arrangiamenti elettronici abbinati ad espressioni extramusicali? Dove porta l’abbinamento con il teatro? Funziona perchè serve al pubblico per vedere, immaginarsi qualcosa che fisicamente non è in scena?

Secondo me ci sono due idee alla base, una importantissima, è che la musica elettronica in qualche modo si svincola da una scrittura compositiva organica dove hai delle parti, delle linee melodiche. In un certo senso la musica elettronica può essere completamente disorganizzata, quindi da quella disorganizzazione alla più completa organizzazione hai uno spettro di colori che è totale. È quindi ovvio che si può modificare maggiormente.
L’altro aspetto è che molti registi si stanno rendendo conto che può essere un elemento importante, anche di rottura. Ad esempio Nono, Berio facevano sperimentazioni sonore non tanto per il teatro quanto per la televisione. Ci sono paesi più avanti in questo rispetto al nostro, ma è importante che registi di fama inizino a capire che si può fare anche altro. Pensa che un regista importante come Sebastian Hartmann ha collaborato con Apparat che, diciamocelo, non è un accademico ma arriva dal djing. Io arrivo dall’ambito accademico e mi piace ricordarlo, anche perchè un po’ quello che manca in Italia è la competenza e il merito. Io li trovo fondamentali, anche se poi mi trovo molto spesso a suonare con musicisti che non hanno fatto il mio stesso percorso. Per questo mi baso su altri aspetti che per me sono importanti, come la creatività e la capacità di ottenere un risultato in maniera spontanea.

Colgo l’occasione per ribadire il fatto che hai studiato in conservatorio, violino per l’esattezza, uno studio che non dura esattamente qualche anno, ma uno studio lungo e intenso. E poi come sei approdato all’elettronica, l’hai conosciuta in conservatorio o fuori e poi si sono incontrate le due strade? Perchè non è proprio la stessa cosa..

Eh no infatti! Ho finito gli studi di violino a Torino, in quegli anni suonavo più che altro rock con i New Trolls, quindi ero già con un piede fuori dall’ambiente del conservatorio, poi contemporaneamente collaboravo con L’Aura, con cui ho fatto un album. Diciamo che c’era già una spinta, anche se non ero ancora completamente in quel mondo, però stavo in un certo senso staccandomi dall’altro. Quindi ho pensato che fosse necessario avere uno studio che fosse meno accademico, pur rimanendo in un ambito scolastico. Nel senso che non avevo ancora abbastanza agganci da dire “mollo tutto e cambio strada” e quindi è andata così. Al tempo il massimo dell’elettronica che ascoltavo erano i Radiohead, che adesso per me non sono elettronica da questo punto di vista! Lo studio della musica elettronica mi è servito tantissimo da un punto di vista conoscitivo, ho studiato con Stefano Bassanese, uno dei migliori insegnanti in Italia, poi ho abbandonato gli studi perchè è arrivata la registrazione per la Sony con L’Aura e mi sono trasferito per qualche mese a Milano. Ho colto l’occasione che aspettavo da tempo e ho fatto una scelta, perchè mi stavo accorgendo che stavo acquisendo molta conoscenza ma che mi mancava la pratica, che è un altro degli aspetti tipicamente italiano.

Per rimanere in tema, con i Marlene avete fatto anche realizzazioni di video arte e sonorizzazioni di questo tipo?

Abbiamo lavorato con i Masbedo, duo di videoartisti milanesi, a diverse opere che sono state rappresentate in alcuni contesti di arte contemporanea prestigiosissimi come il Festival di Locarno, Art Basel e Indeepandance all’Arena Civica di Milano. I tre Marlene poi hanno fatto una produzione per la Biennale di Venezia. Diciamo che la struttura della band è di cinque elementi – loro tre con Lagash e me – questa è la band che realizza dischi e tour, poi ci sono una serie di attività collaterali, come sonorizzazioni, esibizioni acustiche e in quei casi si sceglie di volta in volta. Loro tre fanno gran parte di questo lavoro, io e Luca invece facciamo parte di Lo show dei tuoi sogni e Fragments, con cui abbiamo scritto musiche per il teatro che ci ha portato ad esibirci al Volksbühne di Berlino e al Théâtre de la Ville di Parigi, Cristiano e Riccardo hanno un altro reading, insomma, ci muoviamo tutti quanti!

Bene, un passo indietro e passiamo al progetto VOV con Marta Mattalia, ci racconti come inizia e il percorso che porta ad Amarsi a Gomorra?

VOV è un progetto particolare, perchè non è nato come band, ma come rapporto umano. Marta ed io ci conoscevamo già da prima e abbiamo deciso di creare qualcosa insieme perchè avevamo questo rapporto artistico che non era ben definito. C’era il disegno, il teatro e abbiamo poi deciso di orientarci verso la musica. Il percorso è iniziato nel 2007 e Amarsi a Gomorra è stato l’ultimo progetto che abbiamo realizzato, di cui siamo fierissimi, perchè ci ha portati a lavorare in studio a Londra con Steve Forrest, il batterista dei Placebo, e uno dei loro produttori. Per un gruppo emergente, arrivare a quei livelli di produzione è davvero tanta roba, ti trovi davanti a persone che lavorano in un certo modo, quindi vivi tutto diversamente e impari tantissimo. Poi è un progetto importante perchè parliamo di politica italiana, di mafia, di temi scomodi. Tra l’altro, senza farne un dramma, c’è stato un momento in cui eravamo spaventati. A parte la distribuzione della Warner, che ci ha dato un’ottima visibilità, con questo progetto siamo entrati a far parte di Musica contro le Mafie, con tutta una serie di contatti con circuiti che contrastano la mafia, come Libera. Quindi abbiamo avuto una diffusione capillare, sempre però con un grande slancio artistico.

Da quello è nato anche un video di animazione..

Sì, un corto di Michele Bernardi, un disegnatore eccezionale, è uscito insieme all’EP digitale. Secondo me Amarsi a Gomorra è eccezionale perchè coinvolge delle persone che stimiamo, al di là di quello che possono rivestire come ruolo e importanza. C’è una profonda stima artistica e Michele è riuscito con i suoi disegni a tirare fuori tutta l’angoscia di questo testo, però in modo onirico. Perchè altrimenti si va sul documentario, sul docuviaggio, che è tutta un’altra cosa, più descrittiva, giornalistica, mentre nel corto c’è qualcosa che va oltre, con questi uomini nudi con le teste di animali, che rappresentano proprio la perversione di una situazione politica e sociale. Gomorra può essere ovunque, non è solo a Scampia, per intenderci, la camorra, ma rappresenta il degrado della società, le periferie delle città, l’incapacità dei governanti a governare e delle persone a non andare avanti. Ce n’è per tutti..

Poi c’è il remix di Biancaneve, affidato a molti artisti diversi tra loro.

Veramente, ci siamo stupiti anche noi di come da tre sole canzoni si possano creare tutta questa incredibile serie di progetti. Biancaneve è la terza di queste tre canzoni, e si può immaginare di cosa parli..abbiamo avuto l’idea di farla remixare da artisti che stimiamo o che comunque erano entrati in contatto con noi. Generalmente, per un remix, si chiama un dj o producer e si ottiene una rivisitazione più o meno ballabile della canzone scelta. Noi invece abbiamo chiamato 11 diverse personalità artistiche, molto lontane tra loro, chiedendo loro di creare una personale visione della canzone. C’è quindi l’arrangiatore di archi che ha lavorato con i Depeche Mode, c’è il produttore o il gruppo dupstep, cè il chitarrista dei Massive Attack, c’è il batterista di Apparat, Xabier degli Afterhours..c’è tutto un mondo. Abbiamo sempre cercato di seguire quello che volevamo, senza influenze, come un flusso inarrestabile. Adesso ci siamo presi un momento di pausa, Marta si sta concentrando sulla scrittura e sul teatro, io sto portando avanti i miei progetti personali e quelli con i Marlene.

A proposito dei Marlene, vorrei che ci parlassi del tuo percorso con loro. Intanto come vi siete incontrati?

Più o meno così: un giorno camminavo per strada, ho incontrato Cristiano e gli ho detto “dai suoniamo insieme”..scherzo! Seriamente..io suonavo con IG, una band formata da Gianni Maroccolo, produttore dei Marlene e bassista dei Litfiba e con questa band provavamo nello stesso studio dei Marlene a Cuneo. A quel tempo i Marlene stavano producendo Uno, c’erano quindi un casino di strumenti, ma mancava una figura che potesse suonarli tutti dal vivo..tastiere, violino, chitarra, percussioni, elettronica. Mancava questa figura e uno dei grafici dello studio, Paul Beltrando, per me figura fondamentale, oggi backliner della band, mi ha introdotto a loro. Ci siamo conosciuti e abbiamo iniziamo a collaborare, all’uscita di Uno, il primo album dei Marlene più arrangiato.
Alle tastiere, prima di me, c’era Rob Ellis, batterista e produttore di PJ Harvey, quindi la musica dei Marlene si stava arricchendo sempre di più. Quella musica noise, per anni fatta di basso, chitarra, batteria, stava diventando più arrangiata, quasi teatrale. Quindi è avvenuto in maniera naturale, si stava insieme, era in programma il tour, suonavo tutto quello che serviva per il tour e così è stato. Il fatto che ha sorpreso tutti è che sembrava che suonassimo insieme da sempre, anche se arrivavamo da due mondi opposti.

Hai parlato del loro inizio noise, oggi quello dei Marlene viene definito alternative rock, tanto per dare un’etichetta. Da quando sei un componente della formazione come pensi che si sia evoluta la loro idea sonora?

Credo che sia perfettamente parallela ad una loro crescita umana, quando sei un ragazzino hai nervo, hai il sangue che ti scalda. Quel carattere poi rimane, ma col tempo acquisisci conoscenza e maturità, cambia il genere, scopri un nuovo mondo e lo trasmetti alla tua musica. Da un lato capisco il fan incallito, che dice che non facciamo più ruggire le chitarre come una volta – che poi non è vero – ma oggi quelle chitarre sono registrate meglio e sono suonate con consapevolezza. Con il tempo si impara a dosare, non solo a muovere le dita, diventa tutto più organico. Ovviamente il mio arrivo nel gruppo ha influito parecchio, comunque se ci metti tastiera, organo, violino – anche se il violino come lo suono io è un concetto relativo – già solo la figura di un musicista associato all’orchestra, alla musica classica, può essere uno shock per il fan che non se l’aspetta.

E pensi che questa condizione abbia raggiunto l’apice con..

Con Uno, che è il primo vero disco, non teatrale certo, ma arrangiato con orchestre, pianoforti e c’è Paolo Conte come ospite. Quello ha creato veramente il panico ed è arrivato al pubblico anni dopo. Ed è tipico dei Marlene, si fa un album e sul momento il pubblico lo critica poi, appena ne esce un altro, apprezza quello precedente e critica l’ultimo arrivato. Siamo probabilmente sempre un passo avanti.

Con Nella tua luce è cambiato ancora qualcosa?

È stato un disco particolare, perchè finalmente dopo anni siamo arrivati ad autoprodurci. Il primo vero disco autoprodotto, revisionato nei suoni da Riccardo Tesio, arrangiato in parte da me per la parte di archi e strumentazione e senza supervisioni esterne. Anche qui il disco, con una maturità maggiore, è arrivato a sonorità più simili ai primi dischi, ed è stato forse il primo per cui ho percepito un’accoglienza subito all’unanimità da parte del pubblico. Ho sentito dire “sono tornati quelli di una volta” che a me personalmente non piace, ma detta da una certa fascia di pubblico significa che abbiamo fatto centro. Però tutto è stato fatto con una maturità e una scrittura diversi, anche i testi di Cristiano si adattano perfettamente.

Parliamo dei tuoi progetti invece, cosa succede a Berlino?

Il mio progetto, Komponent, si tratta di una band a tutti gli effetti, insieme a me c’è il batterista di Apparat, Jörg Waehner e il cantante dei Breton Roman Rappak. L’evoluzione della band è un po’ lunga, ho conosciuto Jörg dopo un concerto di Apparat e ci siamo piaciuti molto a livello umano. Figurati, abbiamo iniziato parlandoci del reciproco taglio di capelli [Davide ha un taglio che è un programma, si capisce che la sua seconda casa è a Berlino], un po’ così, senza contare che quando sono andato a Berlino per lavorare con lui, ho trovato casualmente casa sopra il suo parrucchiere. Adesso Roman è in tour perchè è appena uscito il nuovo album dei Breton per la Warp e ci sta mandando le voci registrate nelle sue camere d’albergo un po’ da tutto il mondo e Jörg ed io ci vediamo in studio a Berlino a produrre tutto quello che ci arriva. C’è una buona bolla creativa.

C’è molto fermento, nel campo dell’elettronica, come band intendo, no?

Infatti noi vogliamo creare qualcosa di più moderno, non mi piace fare nomi perchè vogliamo avere la nostra identità e non somigliare a qualcun altro, ma il mondo è un po’ quello che si sta sviluppando adesso, Moderat, Atoms For Peace, quel mondo dove sì suoni, però con una concezione diversa, che è elettronica, però non è un dj set. Quindi non vorrei arrivare con mille strumenti, ma con poca roba. Voglio raggiungere il concetto elettronico di mobilità.

Un approccio club magari? Ormai nell’elettronica a fatica si distinguono i confini tra la musica fatta per l’ascolto – e quindi una produzione più artistica per così dire – e la musica da club. Mi viene in mente Jeff Mills, tempo fa diceva che certa musica è fatta solo per essere ascoltata, però alla fine la sua musica è techno..

Sì, non è che lo facciamo per quello, però sicuramente c’entra molto. Il confine è sottilissimo e i concerti di Komponent li immagino da club, dove la gente viene per ascoltare, poi magari si sballa e si mette a ballare. Vogliamo arrivare lì, avere un impatto elettronico, forte. suonato. Non uno che schiaccia il tasto Play, per intenderci.

Come hai fatto anche tu stasera, ci dici, per chi non c’era, come hai gestito il tuo set come strumentazione?

Il concetto è semplice, anche se stasera non era veramente elettronica, Lo show dei tuoi sogni è un’altra cosa. Essendo solo due musicisti, l’obiettivo è quello di creare qualcosa di più di una semplice interazione tra chitarra e batteria e quindi, suonando, creiamo delle loop session e andiamo avanti in questo modo. Abbiamo in questo caso due loop station a testa e tutto è basato sull’auto-looping, le sequenze sono ripetitive, procedono ciclicamente e hanno una struttura determinata. Generalmente partono più spogli e arrivano alla massima intensità alla fine, partono con un riff, si costruisce un basso e si aggiungono livelli su livelli.

Ok ti ringraziamo per il tuo tempo e in bocca al lupo per Komponent, rimaniamo in attesa per le novità, ci rivedremo, magari a Berlino!

Photo credits: Nicola Garzetti
Where: Davide Arneodo, Facebook, Twitter, Marlene Kuntz, VOV.

Mattia Laurella

Voleva fare l’architetto, ma finisce in conservatorio e lì rimane. Costantemente in bilico tra classica ed elettronica, è alla ricerca di linguaggi musicali nuovi che (forse) non troverà mai.

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