Munari politecnico, faccia a faccia col curatore Marco Sammicheli

Artista, grafico, designer, pedagogista. In due sole parole: Bruno Munari. Uno dei geni dello scorso secolo torna protagonista delle grandi mostre milanesi, aperta da aprile fino al 7 settembre al […]

Artista, grafico, designer, pedagogista. In due sole parole: Bruno Munari. Uno dei geni dello scorso secolo torna protagonista delle grandi mostre milanesi, aperta da aprile fino al 7 settembre al Museo del Novecento di Milano, con un racconto intitolato “Munari politecnico”. Abbiamo fatto quattro chiacchiere col curatore di questa esposizione, Marco Sammicheli, che raccoglie il testimone dell’ultima grande mostra dedicata al genio milanese d’adozione, svoltasi nel 1996, per affrontare Munari a 360°, grazie alle opere provenienti in gran parte dalla collezione di Bruno Danese e Jacqueline Vodoz, suoi amici, collezionisti, editori ed industriali. Un percorso che vuole confrontarsi con le opere già presenti negli spazi pubblici milanesi, come le Collezioni Civiche, il Museo del Novecento e gli archivi di ISISUF e che intende far dialogare le opere di Munari con quelle degli artisti coi quali egli si è confrontato.

Munari, Monte Olimpino, 1971

Le prime quattro sezioni della mostra sono dedicate alla fase giovanile, incentrata su collage, disegno, il rapporto con la ricerca scientifica come motore di creatività e l’arte come generatrice di nuovi metodi progettuali.
Poi il dialogo con altri artisti suoi contemporanei, come Enzo Mari, Max Bill, Franco Grignani e Max Huber, o chi ha condiviso con lui momenti importanti, come Gillo Dorfles e Carlo Belloli o il Gruppo T.

Tutta l’estetica del racconto, poi, trae a piene mani dagli insegnamenti di Munari: dominano strutture leggere, assemblate tramite incastri e gravità. Una scelta che abbiamo trovato coerente e funzionale. L’allestimento non risulta invadente, ma al servizio delle opere esposte. Le nostre preferite sono sicuramente le sculture da viaggio che, qualche tempo fa, abbiamo citato per il nostro regalo natalizio. A nostro parere rappresentano perfettamente quell’incontro fra arte e design che ha reso di Munari un esponente quasi unico nel panorama italiano. E come non citare le fantastiche forchette? Questo video vale più di mille spiegazioni.

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Accanto a questo racconto principale, si dispiega la biografia fotografica che per decenni Ada Ardessi e Atto hanno costruito stando fianco a fianco con Munari. L’esposizione, che s’intitola “Chi s’è visto s’è visto”, documenta più di quarant’anni del percorso creativo e professionale del Maestro. Uno dei momenti più emozionanti è rappresentato dall’ultima foto, un ritratto voluto da Munari stesso prima di morire.

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Ciao Marco, parlaci un po’ della mostra, che è la prima grande esposizione dopo quella del 1996.
Nel 96 è stata l’ultima volta che è stato esposto il nucleo delle opere di Munari che appartengono alla fondazione Vodoz-Danese. La mostra è un proseguimento ideale, ma in realtà ci sono anche opere inedite, perché si parla del lavoro di Bruno Munari in rapporto ad altri artisti, come Giulio Paolini.
Un altro elemento di novità portato da questa mostra è che smentisce un’affermazione di Munari: “Io sono un antispecialista”. Io invece dico che era uno specialista e la sua prima specialità era l’arte, che usava per approdare ad altre discipline, quelle più popolari quando si pensa a lui: design, grafica, editoria, pedagogia.
La mostra è divisa in due sezioni, una dedicata alle opere di Munari (“Munari e il 900”, “Munari e la Civiltà della Tecnica” e “Munari e Milano”) e poi quella che chiamo “la galleria di corrispondenze”, con opere dal secondo futirismo agli anni ’90 di artisti che con Munari hanno avuto un rapporto dialettico.
Giovanni Rubino, che è uno storico dell’arte, mi ha coadiuvato in questo processo di selezione delle opere per evitare il rischio di creare “falsi storici”. Ci sono artisti, anche internazionali (come Max Bill), che con Munari hanno anche lavorato o altri, tipo Grignani o Enzo Mari, che hanno percorso un pezzo di strada insieme, ma poi per vari motivi hanno preso una direzione diversa.

Dire che Munari è principalmente un artista è un’affermazione forte.
L’eccletismo è una scorciatoia per raccontare Munari, ma – come diceva Paolo Fossati – è una “figura inafferrabile”. Ho voluto prendere il toro dalle corna, nell’ottica di creare qualcosa per il Museo del ‘900, che non è un museo del design.

Ma la mostra l’avete denominata ‘Munari politecnico’.
Sono assolutamente convinto che lui utilizzasse la tecnica, gli studi di architettura, ingegneria, matematica e fisica non per ragioni funzionali, ma estetiche, per elaborare un linguaggio visivo. Gli studi sulla curva di Teano, quelli sulla percezione, le xerografie nascono tutte da uno studio tecnico/scientifico, ma hanno esiti formali e visivi.

Cosa ci dici invece della mostra fotografica?
Ho voluto creare questo satellite chiamando gli artisti, fotografi che dagli anni ’60 a fine anni ’90 per scalfire quell’immaginario iconografico che vuole Munari come “nonnetto allegro che sta coi bambini”, quello più pop. Lui era molto complesso, particolare: con queste foto volevo far vedere lui al lavoro e riflettere sull’idea di ritratto. Questa sezione si chiama ‘Chi s’è visto s’è visto’, una frase che lui utilizzava per descrivere il suo rapporto col ritratto. Negli anni ’40 proprio lui aveva sperimentato con l’autoritratto fotografico travestendosi da campesino messicano, acrobata che taglia i fili del telefono… Ma anche la foto che chiude, quella di lui sulla sedia a rotelle, scarnificato, è una foto richiesta da egli stesso per chiudere il cerchio dei suoi ritratti, come fosse una medaglia commemorativa.

Effettivamente nessuno probabilmente si è mai curato di che persona fosse veramente Munari.
Esatto. Quando diventi una personalità così importante per il ‘900, diventi un idolo. È compito delle mostre fare ricerca e chiarezza, il motivo per cui promuoviamo degli incontri all’interno della mostra con ricercatori internazionali.

Forse la mostra nasce anche per celebrarlo insieme ad altri personaggi importanti della città di Milano.
Ne parlavo, quasi un anno fa, proprio con Paola Antonelli, senior curator di design ed architettura per il MOMA di New York, e ci si domandava perché non sia così conosciuto all’estero. Spero che questa mostra possa viaggiare o riaprire il libro di Munari per approfondire questo aspetto.
È stato un personaggio difficile: semplice ed immediato, ma che necessita di tempi lunghi per ragionarci su.

Allestimento e progetto grafico hanno un’importanza notevole, visto il personaggio col quale si rapportano: come sono nati i due progetti?
Ho chiesto a Paolo Giacomazzi di creare qualcosa che fosse sì rispettoso dell’estetica di Munari, ma che desse ai visitatori la possibilità di avere un rapporto one-to-one con alcune opere, come quelle su carta, difficili e viste molto poco. Averle così vicine, poterle quasi toccare può aiutare a capirle.
Paolo ha pensato ad una serie di strutture che grazie ad incastro e gravità restituiscono un’idea di pulizia e leggerezza, una delle caratteristiche del lavoro di Munari.
Lo spazio che ospita la mostra è molto difficile, stretto e lungo, quindi è stata una sfida difficile, ma secondo me vinta con grande sapienza.
Il progetto grafico è legato all’idea di sovrapposizione, stratificazione, di filtri, segni, immagini – altra caratteristica del lavoro di Munari.

Ultima domanda: qual è l’opera a cui sei più affezionato, che magari ha scoperto mentre rovistavi negli archivi e che non ti aspettavi di trovare?
Ce ne sono tante, ma se ne dovessi scegliere una la scelgo per motivi sentimentali: c’è la bozza di un manifesto che si chiama “Negativo/Positivo per Copenhagen”, da lui composto per l’Istituto Italiano di Cultura. L’ho esposto perché dimostra come lavorava, anche quando si parla di grafica e design, con un approccio artistico: è pieno di note sui materiali e sulle sfumature di colore. È una delle opere che più aiuta il visitatore a capire il legame fra il Munari artista e quello designer.

Scherzavamo. Ora l’ultima domanda, la più difficile: una definizione, nello spazio di un tweet, di Bruno Munari.
Munari è il mulino a vento della storia dell’arte italiana del Novecento.

Le parole di Marco non fanno altro che confermare la sostanza dietro questa esposizione, che vi consigliamo altamente di visitare. Avete tempo fino al 7 settembre. Per maggior info, visitate il sito della mostra. All’interno, troverete anche il programma delle numerose conferenze previste nell’arco dei mesi d’apertura della mostra.

Gianvito Fanelli

Pugliese, ho vissuto a Milano per dieci anni prima di tornare in Puglia. Sono un designer. Ho una newsletter, colazione.email, e un progetto su Instagram @vita________lenta

Apulian, I lived in Milan for ten years before returning to Puglia. I am a designer. I have a newsletter, breakfast.email, and a project on Instagram @vita________lenta.

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